Infine, perché dovremmo pensare al concetto di felicità come se fosse uno stato assoluto e perfetto di beatitudine? Cosa vogliamo che sia, il Paradiso, il Nirvana, luoghi privi di dolore, ma anche privi di libertà, di desiderio e quindi di creatività, oppure luoghi in cui siano soddisfatti tutti i piaceri di solito riservati al genere maschile – che strano -mentre al genere femminile sarebbe demandato unicamente il compito di “fornire” questi piaceri.
Certo, l’idea della felicità è fortemente inquinata e distorta da tutte le religioni le cui dottrine e dettami erano generalmente scritte da menti e mani maschili e purtroppo, di recente, anche dai sacerdoti della ricerca scientifica di ambo i generi, se pensiamo che costoro in tutto il mondo stanno studiando e realizzando pillole che fornirebbero quelle dosi di felicità finalizzate a mantenere in vita artificialmente, esistenze e coesistenze, senza energia vitale e senza amore, vale a dire matrimoni e qualsiasi tipologia di unioni fallite, che potrebbero così rinsaldare e resuscitare rapporti spenti, acquistando nel mercato delle passioni i prodotti titolati della molecola della felicità.
Quindi dovremmo aver fiducia in una scienza che fornisce la felicità in dosi ottimali, così come si fornisce il latte ai poppanti, in modo tale da diventare ancora più incapaci di imparare a costruire da sé, con l’impegno e la sincerità dell’anima, gli elementi e i momenti felici, invece di andarli a comprare in farmacia o farseli prescrivere dal medico di famiglia?
Non è forse questa la ragione per cui così tante persone usano droghe che dovrebbero rendere la loro vita più interessante e le loro performance più brillanti? Piuttosto, questo ricorrere a infusioni di onnipotenza invece di renderci più perfetti e felici in realtà ci rende più simili agli insetti sociali, gli imenotteri, tanto che per analogia con quello che il genere umano sta diventando da spingermi tempo fa, per riflessioni analoghe, a coniare il termine di “Umanotteri”, che si adatta davvero a decifrare e delineare, in questa era altamente tecnologica e scarsamente etica, gli aspetti sempre più omogenei, conformi e impersonali degli individui. Ma perché poi la felicità dovrebbe essere un assoluto? Come tutto ciò che esiste nel divenire dinamico delle cose, elementi e stati di armonia sono frammisti ad altri stati di perturbazione e con essi devono convivere inesorabilmente.
Si può essere felici a vari livelli, per alcune ragioni o circostanze e al contempo provare sofferenza e dolore per altre ragioni e circostanti concomitanti, questa è la realtà e direi giustamente e per fortuna, poiché nessuno vorrebbe vivere una felicità che da un lato proteggesse da qualsiasi attacco del destino o delle azioni malevoli altrui, lasciandoci indenni da ogni calamità, ma al tempo stesso condannandoci ad una morte sensoriale, non solo del corpo ma anche dell’anima. Credo che l’intelligenza cosmica sappia meglio di noi gestire il senso della vita “organica”, facendo in modo che la felicità assoluta sia e resti inarrivabile, poiché se fosse possibile raggiungerla e imprigionarla in noi, sarebbe la fine certa della libertà creativa che si svolge nel fluire degli eventi e nella volontà individuale nel contrasto di stati differenti e la morte conseguente dell’anima.
Una prigione di pietra non è diversa da una prigione d’oro, si muore comunque in tutte e due. Io penso che invece di cercare la felicità assoluta, si debba essere impegnati a costruire stati e condizioni possibili di felicità imperfetti, lasciandoli liberi di svanire come svaniscono i sogni, così da avere lo spazio e la capacità di ricrearne sempre di nuovi parzialmente felici. È così che funzionano le cose nel Cosmo, ma non qui da noi, purtroppo.
Ennio Romano Forina / Colori e pensieri di un incipiente autunno.