C’e un amabile signore, sempre sorridente, che va in giro in esilio per il mondo libero, vestito di un saio arancione e poco altro che spesso parla e scrive di una attitudine superficialmente molto celebrata, ma in fondo molto poco conosciuta chiamata compassione, esortando le donne e specialmente le madri a coltivarla e soprattutto a trasmetterla ai propri figli.
È una indicazione molto profonda volta a coloro che sono i pilastri del mondo vivente, le madri, significativa di un pensiero religioso che considera la non violenza e il rispetto universale i prìncipi di base per la reale evoluzione degli individi e della specie in genere.
Ma per insegnare qualcosa ad altri bisogna prima conoscere quello che si vuole insegnare, e se le donne/madri volessero rispondere a questo appello, dovrebbero capire a cosa serve la compassione, perchè dovrebbe essere trasmessa ai figli e gli eventuali positivi effetti da questa derivanti.
La compassione non è un esercizio di bontà finalizzato alla solidarietà sociale come una buona attitudine civica e morale ma un principio mentale, stabilito e profondo che si rivolge al di fuori del proprio ambito di relazioni, oltre se stessi, il proprio clan o famiglia, oltre la nazione o il popolo a cui si appartiene oltre alla propria specie.
È il principio di una vera evoluzione che contrasta anche con l’egoismo naturale più chiuso e crudele e deve riflettersi su tutto il mondo vivente senza eccezioni, persino in quella parte profonda di mondo sconosciuto interno a noi e del quale non siamo i regolatori.
Chiunque è in grado di provare qualche tipo di compassione occasionale e generica per persone lontane che subiscono disastri e sofferenze, ma provare vera compassione per le creature, sia quelle che intersecano le nostre vite sia quelle che conducono le loro esistenze distanti da noi è cosa rara.
E la compassione non è pietà, si può avere pietà anche per chi si disprezza, mentre anche la solidarietà che si prova all’interno dei gruppi o per i componenti famigliari o i compagni di lavoro o di vita è un’altra cosa.
Molti individui che commettono crimini, grandi e minori, possono manifestare degli atteggiamenti “compassionevoli” in situazioni particolari e per soggetti particolari che non hanno nulla a che vedere con la compassione vera, profonda, pervasiva, universale, incondizionata, che non distingue fra caso e caso, fra soggetto e soggetto. La compassione vera è il sentire la sofferenza universale e connettersi ad essa.
Anche una sola azione distruttiva compiuta consapevolmente e senza rimorso rivela in un individuo l’assenza totale della capacità di sentire la compassione.
Il cacciatore che con la sua arma potente ed “evoluta” sfracella il fragile daino, sarà molto addolorato se il suo cane per qualsiasi ragione si ferisce gravemente o potrà dispiacersi per qualsiasi altro soggetto che sia parte rassicurante della sua propria sfera vitale, ma quella non sarebbe compassione, ma solo il di un dispiacere riflesso per qualcosa che pensa di appartenergli o qualcosa a cui lui appartiene.
È così che i criminali, grandi o piccoli si costruiscono la loro distorta e perversa etica. Essi partono da un primitivo e innato concetto naturale: quello della sopravvivenza e del sostentamento della propria prole e del proprio gruppo, all’esercizio di una violenza che va molto oltre queste necessità di base.
Così esercitano la violenza finalizzata all’acquisizione di beni, di territori e di dominio molto oltre il necessario o persino il superfluo, calpestando e distruggendo le necessità e le vite altrui. E purtroppo, in senso lato spesso è come la società civile nel suo insieme agisce e pensa, autogiustificando le devastazioni degli equilibri naturali con la scusa di una crescita che quasi sempre assume la forma di una entità mostruosa che divora molto più di quanto produca.
La compassione è sorella dello spirito materno ma del genere che solo può rendere migliore il mondo, cioè l’amore materno esteso, universale, che travalica i confini della stirpe. Finchè ci sarà il culto per un amore materno circoscritto, limitato a insegnare ai propri piccoli a farsi largo a gomitate, a gareggiare per essere primi e vincenti, ad occupare i posti migliori, ad avere senza essere, il mondo non cambierà. Non vi sarà pace sociale nè pace globale. I conflitti saranno sempre giustificati dalla tremenda espressione “mors tua vita mea”. La compassione è il rispetto universale, la compassione è la tolleranza universale, il procedere sul proprio sentiero senza farlo diventare una autostrada che spezza e divora tutto quello che attraversa.
Non credo vi siano realtà, di vite minori come da millenni ci hanno abituati a pensare, nè forme di sofferenze diverse, ma diramazioni, propaggini e frammenti di un unico flusso vitale nel quale siamo inequivocabilmente e ineluttabilmente immersi, nonostante quanto ci diamo da fare nella costruzione di strutture mentali e fisiche, vere e proprie torri di Babele, che dovrebbero qualificarci a livelli superiori ma che allo stesso tempo ci rendono sempre più e disperatamente lontani dall’essenza delle cose.
L’amabile signore che ha ispirato queste riflessioni è l’attuale Dalai Lama e dato la sostanza del pensiero che rappresenta sono sicuro che intende estendere e promuovere la virtù della compassione non soltanto verso e per la specie umana ma, a differenza di altre “compassionevoli” attitudini nostrane, anche a tutte le altre creature viventi nessuna esclusa.